Con l’improvviso dilagare della pandemia, tutto è improvvisamente cambiato. Ciò che era certo, non lo è più. Ci siamo scoperti fragili.
E la dimensione dell’io si è aperta fino ad abbracciare una più ampia dimensione del noi. È uscito alla luce del sole un altruismo che sembrava un po’ dimenticato. Facciamone tesoro. Per il domani che non si annuncia facile.
Articolo pubblicato nell'edizione di maggio 2020 della rivista CVB Informa. Testo di Antonello Ambrosio, Infermiere specialista CVB
Ci siamo risvegliati un mattino e avevamo ancora addosso tutte le nostre certezze con le quali ci eravamo coricati la sera prima.
Ci siamo risvegliati un mattino e possedevamo tutti i nostri diritti ritenuti (fino a quel momento) inattaccabili e garantiti.
Ci siamo risvegliati un mattino e ci siamo scoperti vulnerabili, complice un conglomerato minimo di proteine e RNA/DNA che non ha neppure la dignità di essere classificato tra gli esseri viventi.
La vulnerabilità ci ha ricordato senza mettersi i guanti che siamo mortali. Come uno schiaffo. Lo sapevano bene i greci che chiamavano mortale l’uomo, lo sapevano bene i nostri nonni che tutti o quasi hanno perso un figlioletto per polmonite. Altri le mogli, di parto. Noi abbiamo fatto finta di dimenticarlo, costruendoci recinti di finta immortalità. Un Eden con le piante in plastica e i suoni registrati degli uccelli.
Abbiamo accolto la pandemia con ambivalenza, come quasi sempre facciamo con le cose. Da una parte con timore, dall’altra con sollievo perché finalmente potevamo dare un volto alla nostra sottile ansia, che poi è mal di vivere, attribuendogliene la responsabilità.
Stiamo capendo la differenza tra sapere le cose in teoria e viverle nella pratica.
Un conto è sapere in teoria che facciamo parte di un ecosistema che è fatto di equilibri talmente assodati da sembrare robusti ma che robusti non sono per nulla; altro è sperimentare cosa accade quando le cose mutano e allora comprendi fino in fondo la frase di Lorenz sul battito d’ali di una farfalla e la relativa tempesta tropicale. Nel nostro caso si chiama “spillover” il salto che passa da un pipistrello (ammesso e non concesso che il pipistrello c’entri davvero) ad un uomo ignaro che lavora nel mercato ittico di Wuhan per finire la corsa in un paese della valle di Blenio oppure in quella di Muggio.
Stiamo imparando (o forse la contingenza ci impone di ricordare piuttosto che imparare) che la natura impone logiche di dominatori e dominati, di vincitori e vinti. Non ha una simpatia particolare per l’uomo e di sicuro non è il suo figlio prediletto e che, se alla fine dovesse vincere un virus (che di sicuro non sarà questo Coronavirus), le cose vanno bene comunque. La pianta non è necessariamente più virtuosa del proprio parassita.
Stiamo imparando che esiste un noi che è più importante dell’io. Che il bene comune è più importante del bene singolare. Suona anacronistico, quasi alieno come concetto tanto è uscito dall’orbita consueta della nostra quotidianità. E facciamo fatica a comprenderlo fino in fondo, abituati come siamo stati a concepire le limitazioni all’io al pari di un tabù.
Stiamo però vedendo cose che stavamo dimenticando; la solidarietà nei confronti delle persone più fragili e giovani che si stanno adoperando a favore di queste.
Ci viene imposto di ricordare che le strutture sanitarie possono essere amministrate con logiche economiche ma che funzionano perché hanno logiche umane e come tali hanno combustibile emozionale, in cui persone che hanno i timori e le preoccupazioni di tutti si recano tutti i giorni per lavorare un numero di ore che non hanno mai lavorato ed esposti continuamente ad un pericolo al quale non sono mai stati esposti. E la moneta richiesta in controparte non si contabilizza. Si riscopre come una sorpresa cosa c’entri la dimensione vocativa con le professioni sanitarie.
Questa condizione ci impone di rivedere la nostra gerarchia valoriale. Cosa vale più di un’altra. Scopriamo che un certo relativismo improvvisamente si inceppa mentre alcuni sentimenti si impongono in modo assoluto.
Stiamo riscoprendo che ci manca toccare una persona cara nel salutarla o meglio ancora abbracciarla e baciarla.
Sono saluti amputati che ci lasciano esuli su una terra costretta.
Sperimentiamo il sospettoso timore nel baciare il capo dei nostri figli prima di mandarli a letto, oppure semplicemente rimandiamo a tempi migliori, dicendo loro che gli vogliamo bene. Scopriamo che non è vero che ci è garantito un tempo eterno per farlo.
Abbiamo scoperto che non esistono diritti al divertimento, ad una pizza tra amici, all’aperitivo nei bar di piazza, il diritto di andare in vacanza, prendere un aereo, caricare gli sci e scarponi in auto, che la possibilità di recarci sul luogo di lavoro può andare oltre i dettami contrattuali.
Abbiamo scoperto che il cordoglio ha una dimensione sociale che al momento non è possibile vivere e che allora diventa ancora più doloroso e triste. Abbiamo scoperto che seppellire i morti è un codice antropologico che quando viene impedito assume la forma di un dolore sospeso e non risolto.
Abbiamo capito che siamo una società e come tale siamo sussidiari, che abbiamo bisogno gli uni degli altri ma al contempo abbiamo compreso che non serve una guerra per riscoprirci homo homini lupus, basta il desiderio di una mascherina o l’ultima scatola di pelati al supermercato, nonostante tutte le rassicurazioni del caso.
Torneremo a riempire le piazze con le biciclette e i gelati, e guarderemo forse con nuovo affetto i ragazzi che fanno strisciare gli skate sul bordo degli scalini. Ci diremo che è stata dura. Si toglieranno gli striscioni con scritto “Onore a chi ci salva la vita” e gli ospedali torneranno ad essere quello che sono sempre stati. I pazienti con la febbre torneranno ad essere coloro che hanno un parametro alterato e non un’insidia pericolosa. Potremo tornare a toccarci la faccia con i nostri guanti e nessuno di noi dirà più “stai attento” prima di partire per un intervento.
Qualcuno avrà imparato molto. Qualcuno meno. Ma così va il mondo dacché è mondo.
Per il momento è ancora presto. Ascoltiamo le autorità e prendiamoci cura gli uni degli altri.
Antonello Ambrosio è docente al Centro Professionale Sociosanitario Infermieristico e membro del comitato redazionale della Rivista per le Medical-Humanities.