Essere un soccorritore, privilegio e scelta di vita. Mario Mortati ha 56 anni, fa il soccorritore professionista da 34.
Inoltre è Capo Intervento Regionale (CIR), intervenendo in occasioni particolari per coordinare i colleghi e i diversi partner del soccorso. In Croce Verde Bellinzona è anche responsabile tecnico del Servizio di Telesoccorso della Svizzera Italiana, il sistema di allarme per persone sole o bisognose.
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Mario, riavvolgiamo il nastro, ci racconti qualcosa degli inizi della tua carriera di soccorritorie?
Da ragazzo, cresciuto ad Ambrì, la mia vita ruotava intorno alla pista di ghiaccio locale. Pattinare e giocare a hockey erano le attività principali per me e i miei amici. Il destino mi ha portato a un incontro fortuito con il capo servizio dell’Ente autolettighe di Airolo durante le partite di hockey, che un giorno mi informò di un corso di formazione per volontari d’ambulanza. Questo è stato il punto di svolta, pur avendo sempre sognato di diventare medico. Tuttavia, l’opportunità di diventare soccorritore volontario mi ha aperto una nuova strada.
Il mio ingresso nel mondo del soccorso è avvenuto in modo graduale ma determinato. Dopo aver completato la formazione come volontario d’ambulanza, ho avuto l’opportunità di combinare le mie competenze di meccanico d’auto con il servizio di soccorso di Biasca nel 1988, all’età di circa vent’anni. Questo mi ha permesso di iniziare una vera e propria scuola di soccorritore professionista. Nel 1990, ho proseguito il mio percorso entrando a far parte della Croce Verde Bellinzona, dove ho completato un corso di soccorritore della durata di due anni. È stato il primo passo verso una carriera che avrebbe plasmato il mio futuro.
Nella tua famiglia c’era qualcuno che lavorava già nel mondo del soccorso preospealiero o nel sanitario?
No, nessuno nella mia famiglia aveva esperienza in questi campi. Mio padre era un operaio, mentre mia madre si dedicava alla casa. Anche i miei fratelli avevano scelto strade diverse. Quindi, il mio ingresso nel mondo del soccorso è stato una scelta personale, dettata dalla mia passione e dalla volontà di servire la comunità.
E il tuo impatto con il mondo del soccorso? Il tuo primo intervento in assoluto lo ricordi?
Il mio primo intervento come soccorritore volontario è stato un momento che non dimenticherò mai. Appena diciottenne, mi trovai di fronte a una situazione di emergenza in seguito a un incidente automobilistico che coinvolse due giocatori di hockey. Uno di loro rimase paraplegico, mentre l’altro riportò solo lievi ferite. Ricordo di essere stato affiancato da un altro soccorritore, Sandro, il quale, anni dopo, perse la vita in un tragico incidente stradale mentre svolgeva la sua professione. Quel primo intervento fu un’esperienza molto intensa che mi rese consapevole della mia vocazione. Nonostante le difficoltà e il prezzo emotivo da pagare, capii che il soccorso era la mia strada, mi resi conto che riuscivo ad intervenire senza esitazioni e con determinazione.
Ci sono interventi che ti sono rimasti particolarmente impressi?
Alcuni interventi restano incisi nella memoria per sempre. Uno di essi è l’incidente in cui un bambino fu investito mentre attraversava la strada e perse la vita. Fu la prima volta che, dopo un intervento, mi ritrovai a piangere. Ho assistito impotente alla sua morte passo dopo passo, e il dolore di quell’esperienza l’ho sempre portato con me.
Un altro momento difficile è stato l’incidente che ha coinvolto cinque ragazzi a Claro nel 2001, quattro dei quali persero la vita sul colpo, mentre il quinto morì in ospedale. Ero tra i primi soccorritori ad arrivare sul luogo, insieme a due volontarie. Ricordo vividamente il dopo, quando la polizia fece il riconoscimento delle salme direttamente sul posto. Era un’atmosfera surreale, con le persone del paese riunite su una collinetta, illuminata da una luce intensa, sembrava quasi uno stadio. La gestione di situazioni così drammatiche richiedeva molto di noi stessi, soprattutto perché all’epoca non c’era un supporto organizzato di assistenza come oggi. Dovevamo affidarci alla nostra umanità e alla capacità di adattamento per far fronte a tali tragedie.
Cosa ha significato essere un soccorritore? Saresti diventato una persona diversa scegliendo un’altra professione?
Essere soccorritore ha lasciato un’impronta profonda nella mia vita, un’esperienza che dopo 34 anni non riesco nemmeno a immaginare di sostituire. Il privilegio di essere al fianco delle persone nei momenti di bisogno ha plasmato la mia esistenza in modi che superano ogni aspettativa. Il 2009 è stato un anno difficile per me: ho perso mio padre a causa di un tumore. Tuttavia, grazie al mio lavoro di soccorritore, ho avuto l’opportunità di rendergli un ultimo omaggio e di accompagnarlo nel suo passaggio con amore e dignità. Questo momento è stato un’illuminazione, un’occasione per comprendere appieno il significato della mia vocazione. Se avessi scelto una strada diversa, sono certo che non sarei diventato la persona che sono oggi. Il soccorso mi ha insegnato l’importanza della compassione, della resilienza e della dedizione. Queste qualità sono diventate parte integrante della mia persona, plasmando il mio carattere e rendendomi un individuo migliore.
La morte, cos’è?
La morte è una delle grandi incognite dell’esistenza umana, un mistero che accompagna l’umanità da secoli. Personalmente, ho una visione della morte che si lega a un concetto di ciclo vitale. Credo che veniamo al mondo per compiere una serie di esperienze e apprendimenti, e che la morte sia solo un passaggio per un’altra forma di esistenza, una sorta di rinascita. Questa convinzione mi porta a percepire la mia presenza qui sulla terra come parte di un piano più ampio, anche se a volte può essere difficile comprendere appieno il motivo del nostro essere qui. Tuttavia, sono fermamente convinto che ognuno di noi abbia uno scopo, anche se non sempre è chiaro a prima vista.
Sei credente?
Innanzitutto, vorrei sottolineare la mia identità di base come cristiano, anche se raramente frequento la chiesa. Ho una spiritualità personale che mi accompagna nella mia vita quotidiana. Tuttavia, durante un periodo di difficoltà, ho trovato conforto e ispirazione nella filosofia degli indiani d’America, una cultura che da sempre mi affascina profondamente. Il legame con questa cultura risale ai miei trascorsi ad Ambrì, dove ho vissuto i primi vent’anni immerso in un ambiente naturale e paesaggistico che, in certo senso, richiama quello delle terre native americane, pur con le dovute proporzioni. In gioventù, ero solito trascorrere notti solitarie sulla cima del Gottardo, un’esperienza che trovavo estremamente gratificante. Mi piaceva sedermi vicino al laghetto, immerso nella quiete, ascoltando la musica o semplicemente contemplando il cielo, così diverso da quello delle città. In quei momenti, mi sentivo in pace con me stesso e con il mondo. Durante quel periodo, i miei colleghi mi avevano soprannominato “Lo Sciamano”, in riferimento alla profonda connessione che avevo sviluppato con la cultura degli indiani d’America. Tuttavia, con il passare del tempo e il superamento di alcune difficoltà personali, ho forse perso un po’ di quella intensità, ma credo che ciò sia dovuto a una mia crescita personale.
Com’era l’ambiente tra voi colleghi in quel tempo?
I miei colleghi nel mondo del soccorso hanno avuto un’influenza profonda sulla mia vita. Alcuni di loro sono diventati autentici mentori, guide preziose che mi hanno arricchito non solo sul piano professionale, ma anche personale. Li considero quasi come una seconda famiglia, con alcuni che hanno assunto il ruolo di figure paterne.
Il nostro lavoro in situazioni estreme ha forgiato legami unici, basati sulla fiducia reciproca e sulla solidarietà. Tuttavia, è importante riconoscere che non tutti i legami sono stati ugualmente profondi. Nel corso degli anni, ho imparato a seguire le mie prime impressioni, che spesso si sono rivelate valide guide nel comprendere le dinamiche relazionali all’interno del nostro ambiente di lavoro. Ricordo con affetto alcuni colleghi come il Bip, il Paf, il Codi, il Wolf - i soprannomi sono sempre stati ricorrenti nel nostro ambiente - ognuno di loro mi ha lasciato un’impronta speciale da quando ho iniziato questa carriera. C’erano anche figure come il Torriani, eccentrico e pieno di energia, e il Kenklies, detto “Wolf”, per la sua aura germanica. Tra tutti questi, il Bip è stato particolarmente significativo per me. Era come un secondo padre, un mentore prezioso che ha lasciato un vuoto immenso. Poi c’era Sergio Codiroli, noto come Codi per il suo caratteristico codino. Lui è stato il mio punto di riferimento nel Telesoccorso, una figura rispettata e ammirata da tutti. Quando è andato in pensione, ho cercato di colmare quel vuoto che ha lasciato, ma nessuno può sostituire veramente una persona così speciale. Sergio era un uomo eccezionale, sempre tranquillo e gentile. Non l’ho mai visto arrabbiato, sempre pronto ad aiutare gli altri. Anche ora continua ad essere una figura rispettata nel nostro ambiente.
A proposito di Telesoccorso, il sistema di allarme per persone sole, tu ti occupi della parte tecnica, vero?
Esatto, della parte tecnica, dello sviluppo e di testare i nuovi apparecchi, in un certo senso faccio un lavoro dietro le quinte. Quando si tratta di installare un nuovo apparecchio da un utente provvedono i miei collaboratori, Angelo e Roby. Io mi occupo più che altro dei test quando arriva un nuovo tipo di apparecchio. Marcello, il nostro fornitore della Svizzera interna, mi dice sempre… “so che se tu mi fai i test, posso stare tranquillo: l’apparecchio che vendo so per certo che funziona”.
Con il Telesoccorso si entra molto in contatto con le persone anziane, qual è il tuo rapporto con loro?
Ho un grande rispetto, secondo me una persona anziana quando chiede aiuto è perché ne ha proprio bisogno. La considero una persona saggia, da cui si può prendere esempio, imparare. Anche nella cultura degli indiani d’America l’anziano è una figura importantissima, colui che può tracciarti un percorso da seguire. Ricordo che molti anni fa, durante una settimana in cui ho fatto molte installazioni di apparecchi del Telesoccorso, una giornata iniziai con la prima installazione alle 09:00. Dopo aver finito il mio lavoro la signora ha cominciato a parlare un po’ con me, poi mi voleva offrire il famoso vermouth, io rispondo non posso bere la mattina così presto… poi l’installazione successiva, stessa trafila, la signora alla fine voleva offrirmi una grappa... La persona anziana è fatta così, ha anche bisogno di un rapporto di relazione, di scambiare due parole… Noi nel nostro piccolo qui a Bellinzona sicuramente lo facciamo, ci prendiamo un po’ di tempo per spiegare il contratto e stare un po’ con loro, fargli capire che ci siamo. In quei momenti mi capita spesso di pensare che abbiamo anche un ruolo sociale non indifferente.
Tu sei Capo Intervento Regionale, mi spieghi meglio questo ruolo?
Come Capo Intervento Regionale (CIR), il mio ruolo è quello di essere il punto di riferimento per i soccorritori durante le loro attività quotidiane. Anche se può capitare che io stesso partecipi a un intervento per coordinare situazioni più complesse, il mio compito principale è gestire i rapporti con i vari partner coinvolti nel soccorso. In pratica, organizzo il trasporto dei pazienti verso gli ospedali e mi premuro che i soccorritori possano concentrarsi pienamente sull’assistenza al paziente. Di solito, svolgo due o tre turni al mese come CIR, ma resto comunque a disposizione per interventi imprevisti durante le serate. Recentemente, uno degli interventi più significativi è stato la gestione di una situazione critica che richiedeva il coinvolgimento dell’amministrazione cantonale. Si trattava di una lettera arrivata per posta che sollevava alcune preoccupazioni e il mio ruolo era quello di coordinare una risposta adeguata. Anche in casi di potenziali suicidi, noi Capi Intervento Regionale dobbiamo intervenire per gestire le varie questioni esterne, come ad esempio il rapporto con il Care Team Ticino, il servizio di supporto per le vittime di eventi traumatici.
Cosa fai nel tempo libero, quali sono i tuoi hobby?
Ho sempre avuto la passione per il calcio e visto che il mio talento con i piedi non era eccezionale ho sempre fatto il portiere. È stata una scelta che ha segnato la mia esperienza sportiva per diversi anni. L’adrenalina di difendere la porta è un’esperienza unica, che mi ha portato a far parte della squadra della Croce Verde, con cui abbiamo disputato partite e tornei. Purtroppo, il destino ha deciso di mettermi alla prova quando ho subito un infortunio al ginocchio che ha richiesto ben tre interventi chirurgici, costringendomi infine a interrompere l’attività. Tuttavia, la passione per il calcio è rimasta viva e ha trovato una nuova via attraverso i miei figli. Mentre il mio primogenito si dedicava al gioco sul campo, il più piccolo ha deciso di seguire le mie orme diventando portiere. Così, ho iniziato a collaborare con la sua squadra, mettendo a frutto la mia esperienza e conoscenza del ruolo. Ho frequentato corsi ISEF di alto livello, tra cui il livello avanzato specifico per allenatori di portieri, uno dei quali è stato tenuto addirittura da Patrick Foletti, attuale allenatore dei portieri della nazionale svizzera. È stato un percorso che mi ha arricchito enormemente e che mi ha permesso di continuare a vivere la passione per il calcio da una nuova prospettiva.
Inoltre, da due mesi ho adottato un cucciolo di Husky, un desiderio che covavo da anni. Tutto è iniziato quando mio figlio mi ha inviato un messaggio entusiasta annunciandomi la presenza di cuccioli in vendita di questa razza. Senza esitazione, siamo andati a vederlo e il giorno successivo l’abbiamo portato a casa e questo ha rivoluzionato la mia vita in modi che non avrei mai immaginato. La presenza di Atena, così l’abbiamo chiamata, ha trasformato le nostre giornate. Ogni sera, non importa il tempo, esco con lei. È incredibile come i cani abbiano il loro modo speciale di essere presenti, di guardarti con autenticità. L’energia positiva che emanano è contagiosa. Atena, con i suoi otto mesi, è una fonte inesauribile di gioia e di affetto. C’è qualcosa di magico nel modo in cui un cane si avvicina, nel modo in cui cerca il contatto e come ti riempie di amore anche nei momenti più difficili. Quando ho una giornata storta, non c’è rimedio migliore che tornare a casa, prendere Atena e uscire per una passeggiata. Il suo semplice esserci, con la sua natura affettuosa e giocosa, mi aiuta a rilassarmi e a ritrovare il benessere interiore.
Come vorresti concludere l’intervista, vuoi aggiungere qualcosa? Un ultimo pensiero...
Durante tutti questi anni di servizio, ho sempre trovato grande soddisfazione nel mio lavoro. Ogni mattina, quando arrivo in sede, mi pervade un senso di contentezza, nonostante ci siano momenti in cui anch’io posso avere una giornata difficile. Vorrei esprimere la mia profonda gratitudine ai colleghi che hanno condiviso con me momenti passati e che purtroppo non sono più tra noi. Allo stesso tempo, riconosco il valore dei colleghi attuali, che affrontano con me le sfide quotidiane. Ammetto di non avere un carattere facile, ma credo che questo sia una caratteristica condivisa da molti. Cerchiamo tutti di non lasciarci influenzare dai problemi personali sul luogo di lavoro, sebbene a volte ci riesca meglio di altre.
Tuttavia, c’è un insegnamento che ho sempre tenuto a mente, un detto che mia moglie ripete spesso e che gli indiani d’America condividono: “non si può veramente comprendere qualcuno fino a quando non ci si mette nei suoi panni”. È un richiamo alla compassione e alla comprensione, invocando un approccio più amorevole verso gli altri. Questo principio mi guida nel mio rapporto con i miei colleghi e mi spinge a cercare sempre di comprendere prima di giudicare.