Antonello, soccorritore professionista, si presenta
Antonello Barelli lavora in Croce Verde Bellinzona da trent’anni. Quello del soccorritore è il lavoro che ha sognato di fare fin da bambino. E dopo essere stato a bordo dell’ambulanza, non solo come operatore sanitario ma anche come paziente, ci racconta in un’intervista le sue più significative esperienze, belle e meno belle.
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Come e quando è iniziato il tuo percorso nel mondo del soccorso preospedaliero?
Prima di diventare soccorritore ho fatto il verniciatore di carrozzeria, poi per qualche tempo il magazziniere. Ma il mio sogno fin da bambino era quello di fare il soccorritore in ambulanza. Ricordo che vicino alla mia casa d’infanzia c’era una curva un po’ pericolosa, dove di frequente si verificavano incidenti. Appena sentivo l’ambulanza in lontananza, prendevo la bicicletta e andavo a vedere i soccorritori all’opera. Credo che quella curva abbia in un certo senso contribuito ad avvicinarmi a questa professione. Quando avevo 15 o 16 anni in famiglia abbiamo iniziato a parlare del mio futuro: cosa avrei fatto da grande? Sono il primo di sei figli e all’epoca mio papà mi disse che non avrei potuto proseguire gli studi, perché non c’erano i mezzi: “Comincia a fare un apprendistato e dopo puoi fare quello che vuoi”. Confesso che mi sono trovato un po’ spiazzato. Ho iniziato come apprendista verniciatore e ho svolto il servizio militare tra i sanitari. Poi nel 1992 ho seguito il cammino formativo per ottenere il brevetto A tra i samaritani di Biasca, come volontario. Alla fine del 1993 Croce Verde Bellinzona ha indetto un concorso per ampliare il proprio team di soccorritori: vi ho partecipato e, dopo le selezioni, sono stato assunto come professionista non diplomato. Nel contempo ho iniziato a frequentare la scuola per soccorritori diplomati, che durava 3 anni. Devo ringraziare con tutto il cuore la CVB che mi ha dato la possibilità di seguire i corsi. Nel 2001 mi sono quindi diplomato, e nel 2003 ho frequentato la scuola per diventare istruttore brevetto A, e ottenere così l’abilitazione per formare gli adulti nella pratica del soccorso d’urgenza. In un primo tempo mi sono occupato della formazione dei soccorritori volontari di CVB, poi ho anche tenuto corsi per la popolazione. Per un certo periodo mi sono inoltre occupato della logistica e dei veicoli. Quella del soccorritore è una professione che bisogna amare profondamente: ti dà tanto ma ti chiede anche tanto. Devo ammettere che, dopo i primi anni di grande entusiasmo, tutto diventa un po’ più difficile, anche perché c’è meno adrenalina. Inoltre a 27 - 30 anni riesci a superare certi eventi traumatici più facilmente. Man mano che passano gli anni si tende a vivere tutto in maniera diversa. Magari diventi genitore, diventi zio e quegli interventi che vedono coinvolti bambini, ragazzi e giovani ti toccano in modo diverso rispetto agli inizi della carriera.
In che modo senti questa differenza?
A una certa età si riflette di più, c’è più esperienza, più consapevolezza. Magari a vent’anni sei già padre ma non senti completamente quel grande senso di responsabilità che matura pienamente con il passare degli anni. Pochi giorni fa un giovane soccorritore mi ha chiesto: “Lello, come fai a superare certe cose?”. Lo si può fare in diversi modi. Ad esempio praticare sport può essere una valvola di sfogo, come pure parlare con persone che ti capiscano. Da giovani forse si tende di più a parlarne con i colleghi, ma si rischia di entrare in un circolo vizioso: si esce a cena con loro e si parla sempre di quello. Quindi va bene parlarne, ad esempio nei debriefing, ma poi ci deve essere uno stacco completo. Per quanto mi riguarda, posso contare sulla sensibilità di mia moglie, che mi lascia nel mio brodo quando mi vede arrivare a casa un po’ giù di corda. Magari prendo la bici e vado a fare un giretto, oppure vado a pescare. Credo sia importante avere degli hobby in cui si riesce veramente a staccare la spina, senza pensare agli interventi.
Sei fra i pochi soccorritori ancora attivi ad aver iniziato nella sede di viale Portone, cosa ricordi di quegli anni?
Ho “vissuto” in quella sede per circa sei o sette anni. La ricordo molto spartana e si respirava un’aria più... familiare. Mi viene da sorridere con dolcezza quando ci ripenso. In quella struttura, ogni volta che pioveva filtrava l’acqua dal soffitto e in inverno faceva molto, molto freddo. Avevamo un bruciatore a nafta che chiamavano “il drago” perché buttava fuori il fuoco frontalmente. I vecchi soccorritori avevano la tendenza a far svolgere alcune mansioni ai più giovani, come ad esempio quella di tenere in ordine materiale e ambulanza… mentre loro magari leggevano il giornale. Oggi i vari membri degli equipaggi delle ambulanze hanno un ruolo ben definito, ma a quei tempi poteva accadere che in base al tipo di allarme andasse l’uno o l’altro soccorritore. Se c’era un incidente di un certo tipo, ad esempio, si poteva decidere di escludere i volontari e si sentiva la classica frase: “Vado io che sono diplomato e tu no…”. C’erano già una sorta di atti medico delegati, protocolli d’intervento che le direzioni mediche davano ai soccorritori. In quegli anni rispondevamo noi in sede alle chiamate, non c’era ancora la Centrale di Allarme 144. Il numero del nostro centralino era il 25 22 22 ed era lo stesso sia per le richieste di un’ambulanza sia per il Servizio di Telesoccorso; quindi un soccorritore doveva sempre essere presente. Aggiungo anche con un pizzico di orgoglio che CVB è stata un vero e proprio pioniere con i sordomuti. Erano i tempi in cui non c’erano i cellulari e nemmeno quelle tecnologie che sono oggi indispensabili per poter interagire con le persone non udenti. Quindi quando arrivavano questo genere di chiamate utilizzavamo un particolare apparecchio con cui riuscivamo a comunicare con loro. In particolare, mi ricordo di una ragazza sordomuta che si era innamorata di un giovane e un giorno mi ha tenuto un’ora al telefono per scrivere al moroso, per dirgli che gli voleva bene... Ci occupavamo anche di rispondere alle chiamate del Servizio di trasporto delle persone bisognose.
Hai visto molti cambiamenti durante la tua carriera professionale?
Certamente. All’epoca effettuavamo gli interventi con dei furgoni Movak, bassi, piccoli ed equipaggiati unicamente per trasportare il paziente dal luogo dell’evento all’ospedale. Oggi le ambulanze sono dei veicoli di ultima generazione che consentono di somministrare subito al paziente la terapia più idonea che verrà poi continuata una volta giunti nella struttura di riferimento. Possiamo anche fare un elettrocardiogramma che viene visto direttamente dal cardiologo del Cardiocentro con cui si è in collegamento telefonico: questo era impensabile solo qualche tempo fa. Ma anche l’avvento stesso del Cardiocentro nel 1999 ha apportato un grande cambiamento. Quando ancora non c’era, un giorno alla settimana andavamo a prendere all’Ospedale San Giovanni quattro pazienti, in cura per problemi cardiaci con un’auto della CVB (era una Chrysler voyager, non un’ambulanza...) e li portavamo all’Ospedale Civico di Lugano per fare una coronarografia. In base all’esito dell’esame li trasportavamo magari a Zurigo, a Berna o a Losanna. Su questi veicoli all’inizio non c’era neppure un defibrillatore, poi è stato introdotto, perché evidentemente c’era un certo rischio, visto la tipologia di pazienti. Oggi una cosa così è inconcepibile. Trovo che sia stata un’evoluzione notevole per il paziente. Attualmente in Ticino per quanto riguarda infarto o ictus siamo veramente all’avanguardia: un paziente che ha un problema cardiaco o cerebrale, tempo massimo un’ora ed è già in sala operatoria.
So che anche tu hai avuto un’ischemia, un giorno ti sei ritrovato paziente…
Sì, è accaduto nel 2005, avevo 38 anni. Era il giorno di Pasqua, ed ero a Prosito a casa dai miei genitori. Mia cognata ha capito che c’era qualcosa che non andava: inizialmente avevo mal di testa, avevo appena passato una settimana molto intensa dal punto di vista lavorativo. Mi sono sdraiato sul divano, ma non cambiava molto. Mia cognata è levatrice e aveva con sé un apparecchio della pressione e quindi me l’ha misurata… Vedevo che stringeva, stringeva, ma non riusciva a rilevarla. Alla fine c’è riuscita: avevo la massima a 220 e una bradicardia, con una frequenza cardiaca di 35 battiti al minuto. Nel frattempo mio fratello, che aveva fatto il volontario a Tre Valli Soccorso, si è allarmato e ha chiamato l’ambulanza, anche se contro la mia volontà. Ha contattato anche il servizio specialistico d’urgenza. Sono stato portato a Bellinzona, dove mi hann ricoverato per diversi giorni. Mi hanno fatto la risonanza e la TAC, grazie alle quali è stata diagnosticata una microlesione a livello del ponte. Sono sempre stato cosciente, ma sentivo che mi arrivavano le crisi, questo lo ricordo perfettamente. Poi per fortuna con le cure specifiche sono progressivamente migliorato. Quando mi hanno dimesso, in una parte del corpo non avevo sensibilità al caldo e al freddo, se mettevo sotto l’acqua calda la mano mi ustionavo. La cosa più brutta che ricordo è il singhiozzo, mi è durato quasi due giorni: una cosa fastidiosissima. Questo sintomo l’ho avuto per un mese e mezzo... tutte le sere per un’ora e mezza avevo il singhiozzo. Poi fortunatamente è passato...
Quindi sei stato ricoverato in ospedale…
Per fortuna posso dire che alla fine ho rimosso tutto, è andato bene, ho fatto la mia riabilitazione e sono ritornato a lavorare. L’ischemia mi è venuta probabilmente per lo stress. In quel periodo stavo frequentando la scuola per diventare formatore, nello stesso tempo lavoravo e avevo delle tensioni in famiglia perché stavo divorziando dalla mia prima moglie, la notte dormivo pochissimo. Devo dire che il mio corpo mi ha mandato dei segnali, ma a quell’età tendi a sottovalutarli. Negli ultimi anni ho lavorato tanto su me stesso, ma a quei tempi andavo in escandescenza per qualsiasi cosa. Quando mi occupavo dei veicoli di soccorso se mi ammaccavano un’ambulanza era come se mi toccavano mia figlia e questo non va bene. In effetti curavo e accudivo tutti i mezzi, volevo che fossero sempre in ordine, penso che siano un po’ un biglietto da visita per la Croce Verde Bellinzona.
Ricordi un intervento particolare, che non hai mai rimosso e ancora oggi ti torna in mente?
Ne ho diversi e uno veramente drammatico. Ho portato in ospedale una ragazza che stava partorendo e qualche mese dopo mi ha messo tra le mani sua figlia, morta. È andata così: di notte, la ragazza inizia ad avere le contrazioni, cerca di contattare il marito ma non riesce a rintracciarlo (aveva un turno di lavoro notturno). Le contrazioni aumentano, lei chiama l’ambulanza. Andiamo a prenderla, la portiamo in ospedale e partorisce senza alcuna complicazione. Lei e suo marito erano una coppia giovane ed è nata tra noi un’amicizia, tanto che le avevo regalato dei vestitini di mia figlia. Poi passano 3 o 4 mesi, arriva una chiamata e partiamo a sirene spiegate... l’indirizzo in effetti mi ricordava qualcosa. Una volta arrivati sul luogo dell’evento, la porta si apre e mi ritrovo davanti la ragazza, che mi porge sua figlia, già morta per arresto cardiaco. Ricorderò sempre quello che mi ha detto: “Tu l’hai vista nascere, tu l’hai vista morire”. Era una morte bianca… in quell’anno ho fatto addirittura 5 interventi per morti bianche nel Bellinzonese. Invece di interventi con lieto fine ne ricordo diversi, come ad esempio un parto a Claro. Non ero ancora diplomato, le mie nozioni erano limitate. Siamo partiti in due su un’ambulanza e appena arrivati in casa la testa del bambino era già quasi fuori e noi l’abbiamo fatto nascere lì. Ricordo che era il mese di novembre o dicembre e quell’appartamento era freddo. L’unica cosa che avevo visto in casa che potesse in qualche modo scaldare era il forno: l’ho acceso e ho messo dentro le coperte. Abbiamo quindi portato il neonato al San Giovanni avvolgendolo in quelle coperte calde, insieme al telo termico. Un parto così all’improvviso può capitare con il secondo o il terzo figlio, difficilmente con il primo, come invece è accaduto in quel caso.
Quali ricordi hai della pandemia?
Ho un ricordo bruttissimo. Sono stato uno dei primi soccorritori a contrarre il Covid. In quel periodo io e mia moglie avevamo una bambina in affido. Le associazioni che ci stavano seguendo erano preoccupate per la bambina, temevano che potesse prendere il Covid anche lei. Ma ho fatto attenzione, la bambina non ha preso niente, però ho dovuto isolarmi in una camera in casa mia. Poi mi hanno ricoverato. Questa esperienza “da paziente” l’ho vissuta male anche perché all’inizio non si sapeva quali fossero le cure idonee. Non erano ancora state introdotte le mascherine chirurgiche e neanche le FFP2. Probabilmente ho preso il virus durante una rianimazione, una situazione in cui si è molto vicini al paziente: bisogna ventilare, quindi vengono emesse goccioline. Ho avuto poi conferma che il paziente era positivo al Covid e in seguito è deceduto. Quando mi hanno ricoverato in ospedale sono stato molto male. A livello di sensazione personale era come quando in piscina ti capita di bere acqua e devi buttare fuori aria per poter respirare. Un medico una sera mi ha detto: “Lello, se domani non migliori dovrò intubarti”. Nella mia testa è passato un pensiero: tra le persone intubate, una su tre muore. Poi per fortuna non è stato necessario e piano piano sono guarito. Anche dal punto di vista professionale non l’ho vissuto positivamente. Ricordo una sera che sono andato all’Ospedale La Carità di Locarno, centro Covid, a portare un paziente. Ho ancora in mente un grande capannone con i divisori in legno, sembrava un cantiere, con delle bombole ossigeno enormi, e le persone erano su barelle un po’ improvvisate. Era un capannone della Protezione Civile, certo molto funzionale, ma ho pensato: “Siamo in guerra contro un nemico invisibile”. Nel capannone non poteva entrare nessuno, tranne noi soccorritori e gli infermieri. Non potevamo rassicurare queste persone, vedevamo i loro occhi smarriti, nel loro sguardo era come se dicessero: “Qui non esco più, qui morirò e non vedrò più nessuno dei miei familiari”. Alcune delle persone che ho soccorso erano genitori di miei amici, che non sembravano così gravi, ma dopo qualche giorno mi arrivava la notizia della loro morte.
Quali sono i tuoi hobby?
Faccio il vino insieme al mio vicino di casa sperando che viva ancora cent’anni, perché è lui che mi dà la possibilità di avere la cantina, di usare i suoi tini e le sue apparecchiature. Ora ha 81 anni ed è ancora in ottima forma. Io mi prendo cura della vigna, una cosa che mi ha sempre occupato molto tempo. L’attività nella vigna la vedo molto bene per quando andrò in pensione, vicino permettendo.
Qual è il tuo rapporto con la morte? Sei credente?
Non ho paura della morte, anche perché ci sono già arrivato abbastanza vicino, prima con l’ischemia e poi con il Covid. Ma ho paura di morire male, questo sì. Ho visto spesso morire gli altri. Un tempo ero cattolico ma ora mi ritengo ateo. Non credo più in questa Chiesa, ma credo nell’aldilà, credo che ci sia qualcosa ma non so cosa. Ho visto mio suocero morire, che per me era un po’ un papà, il papà che mi è sempre mancato. È morto lentamente, mi ha fatto male, lui non accettava le sue malattie. Sono stati 2 anni molto intensi e difficili. Io sono andato via abbastanza presto da casa dei miei genitori. Con mio papà ho sempre avuto un rapporto difficile. Ritornando all’inizio di questa nostra chiacchierata, ricordo sempre quando a quindici anni mi ha detto: “Tu non puoi andare a studiare ma devi lavorare”... ecco questo mi ha lasciato molta amarezza.